Stefania Noce ha ventiquattro anni, studia psicologia all’Università La Sapienza di Roma e porta avanti con convinzione le sue lotte a favore dei diritti dei migranti e delle donne. Il 27 dicembre 2011 potrebbe essere per lei una giornata come tante. Potrebbe, ma non è.
Quella mattina la vita di Stefania finisce per mano del fidanzato che aveva deciso di lasciare. Fidanzato che, non potendo accettare questa decisione, trucidò a colpi di coltellate Stefania e i nonni che cercavano di difenderla.
Per i tre crimini l’assassino venne condannato in primo grado all’ergastolo. Nella sentenza, per la prima volta in Italia, si parlò di femminicidio: Stefania aveva perso la vita in quanto donna.
Femminicidio, una nuova parola per descrivere un reato vecchio secoli ma mai passato di moda.
Un reato che, a dirla tutta, non è sotto i riflettori per via di una strana strategia mediatica, ma per via di numeri sorprendentemente alti, in una società che chiama se stessa avanzata, civile, attenta ai diritti.
Se infatti si osservano i dati nazionali relativi a tutti gli omicidi commessi a carico di un soggetto di sesso femminile, si nota che le quote sono in aumento, almeno nel breve periodo. I casi di omicidio al femminile sono stati 179 nel solo 2013, cioè, circa, uno ogni due giorni: il dato più alto negli ultimi sette anni. Nel 18,9 % dei casi si tratta di madri uccise dai propri figli. Nel 31,7 % dei casi il movente principale è la gelosia[1] (Eures, 2013). In due casi su tre si tratta di violenze sulle donne in quanto donne: femminicidi veri e propri (La Stampa, 2013).
Le quote più alte si registrano nell’area di Milano e Napoli.
Ampliando lo sguardo ad altre violenze di genere, osserviamo inoltre che ogni anno, solo a Milano, sono circa 300 le donne che subiscono aggressioni e stupro. O almeno, 300 casi di denuncia e chissà quante violenze fisiche, verbali, psicologiche, passate sotto silenzio, ignorate, dimenticate. Tra le vittime madri di famiglia e prostitute, italiane e straniere, adolescenti e anziane. Le violenze di genere – e quelle sessuali in particolare – avvengono sia tra le mura domestiche che in strada; di giorno, ma più spesso di notte.
È un tema, quello della violenza sulle donne, che nessuna società che voglia definirsi civile può permettersi di ignorare.
Ed è vero, le grandi campagne sono importanti, la sensibilizzazione è d’obbligo, ma lo sforzo deve partire dagli individui. E questo risulta ancora difficile in una società che, di fatto, è ancora maschilista.
Si perché, quante volte ci è capitato – e parlo alle donne che leggono questo articolo – che il nostro parere non venisse ascoltato, o che il nostro discorso venisse interrotto solo per via del nostro genere di appartenenza? E per chi ancora non ci credesse, esistono degli studi a proposito: mediamente, una donna che espone un’argomentazione, viene interrotta il doppio delle volte rispetto ad un uomo. Non è forse questa violenza?
Non parte forse da questo primo livello la violenza di genere?
C’è una soglia, quella dei diritti degli altri, che l’essere umano oltrepassa per rabbia o per istinto, comunque non per patologia. E purtroppo non è raro che la rabbia venga causata, in un maschile che vede perdere il suo antico potere di sesso e genere dominante, da frustrazioni e non accettazione del soggetto femminile. E non è nemmeno raro che la frustrazione si tramuti in odio, e da odio in violenza.
E quindi, cosa fare per fermare un fenomeno che sembra impossibile arrestare?
Prima di tutto, occorre indignarsi. Esprimere a voce alta la propria disapprovazione, la propria distanza dall’aggressore. Se siamo uomini o donne, questo ha poca importanza. Il rispetto è un diritto di tutti, sempre.
E poi denunciare. Denunciare le violenze private, denunciare le violenze altrui. Parlare, parlarne. Anche quando il problema sembra minimo. I luoghi idonei esistono, ed è l’esempio dello Sportello Donna del Comune di Cormano, aperto nel mese di marzo, in collaborazione con la Onlus Mittatron, con il compito di fornire sostegno alle donne che subiscono maltrattamenti e violenze, sia fisici che psicologici, sia fuori che dentro la famiglia, che ha organizzato per domani sera un incontro pubblico volto a sensibilizzare la cittadinanza.
Ma non basta. Perché il primo passo per fermare la violenza di genere è l’educazione. Educazione per un femminile che sia in grado di percepirsi come egualmente degno di rispetto, ma anche educazione per un maschile che sia sensibile a percepire i generi come pari.
Perché, se davvero ci troviamo in quella che il filosofo Norberto Bobbio chiamò l’età dei diritti, dovremmo garantire la presenza in società non tanto di uomini e donne, femmine e maschi, ma di persone giuridicamente eguali.
[1] Il dato viene calcolato sul totale dei casi del triennio 2010-2013.